La malattia è innanzitutto un problema linguistico, notava già cento anni fa Virginia Woolf, nel folgorante saggio Sulla malattia. Parlare della malattia è essenzialmente dire la malattia, ovvero trovare la parole giuste che siano in grado di descriverla, di descrivere la sofferenza.

In questo momento, messi di fronte a qualcosa di talmente nuovo e incomprensibile, sofferenti lo siamo tutti e infatti ci sentiamo privi della grammatica essenziale per esprimerci. Soffriamo d’incomprensione, di paura, di rabbia, di solitudine, di egoismo. E quando le parole giuste vengono a mancare, anche i pensieri giusti non trovano alcun sostegno su cui imperniarsi.

Ci scagliamo con i politici che hanno perso tempo, con le persone dai tratti orientali considerate untori, con chi non ci ha dato credibilità a livello internazionale, con quelli che hanno affollato le stazioni, con chi va a correre. Il sud ha urlato contro quelli che tornavano dal nord, quelli rimasti al nord contro quelli che hanno riempito i treni, quelli senza mascherina contro quelli con la mascherina, i serrati in casa contro i passeggiatori solitari, i presunti intelligenti se la sono presa con i presunti ignoranti, i giovani contro i vecchi, i vecchi contro i giovani, i calmi contro quelli in preda al panico, i detenuti contro i liberi, i liberi contro i detenuti, i capi contro i dipendenti, i dipendenti contro i capi.

In mezzo a questo vortice di ferinità, c’è anche un silenzio. Quello di chi di parole non ne dice quasi più, perché non interessano a nessuno, nemmeno in tempi normali.

C’è il silenzio di chi raccoglie la nostra spazzatura e non può tirarsi indietro, quello di chi consegna le nostre pizze e si consola pensando che almeno stavolta non sarà investito, viste le strade deserte. Quello dei cassieri dei supermercati che devono sorbirsi pure le nostre lamentele, quello dei medici e degli infermieri che sentono che c’è ancora gente in giro, quello di chi lavora nelle comunità, nelle case famiglia, negli Sprar.  Quello delle prostitute costrette a lavorare, quello degli immigrati arrivati qui certi di essersi lasciati le epidemie alle spalle. Quello dei pazienti di un reparto psichiatrico che sprofondano davanti alla tv della sala comune che tramette solo maratone sul virus, quello dei genitori alle prese con un figlio autistico che non riesce a capire perché non può uscire, quello di un figlio alle prese con un genitore affetto da demenza che non è in grado di riconoscerlo se indossa una mascherina. Quello della donna che in casa preferirebbe starci il meno possibile perché vittima di violenza, quello di chi sta per partorire il primo figlio e trema al pensiero di darlo alla luce in un mondo così scombinato.

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