Un diavolo per capello

Il signor Francesco fa il barbiere da una vita, anche se a guardarlo non è la prima cosa che verrebbe in mente. Ogni mattina alle otto e trenta alza la saracinesca del suo “Barbiere – Acconciature Maschili”, con gli occhi di un bambino davanti a un giocattolo nuovo.

Varco l’ingresso del suo negozio che il sole è scivolato dietro ai palazzi da un pezzo. Fuori un freddo pungente avvolge l’epilogo di un’altra giornata di zona arancione, o forse gialla, rossa, chi può dirlo con esattezza. Mi accomodo su una delle quattro poltrone girevoli che hanno più di mezzo secolo e chiedo se posso tenere la mascherina per tutta la durata del taglio. “Sì, ma prima toglila che devo farti lo shampoo, sono le regole” dice con un accento che lesina sulle vocali ma che esplode di Puglia.

Mi prende la testa e me l’accompagna sul lavandino difronte, proprio sotto lo specchio. La posizione non è delle più comode, penso mentre l’acqua mi entra nel naso, mi va sugli occhi, nelle orecchie, in bocca. Forse mezzo secolo fa tutto ciò era considerato confortevole. Gli arredi sono originali, gli stessi che ha lasciato il precedente proprietario milanese da cui il signor Francesco ha comprato il locale. Riemergo davanti al mio riflesso giusto in tempo per riprendere fiato.

“Ho questo negozio da ventisette anni e qui intorno ho visto cambiare tutto. Nel palazzo di fronte, per esempio, c’erano solo milanesi, qui sopra pure. Poi sono morti e sono arrivati marocchini, ‘giziani, eccetera”.
“Sarà aumentata anche la concorrenza?”, domando io per evitare la deriva che comincio ad annusare.
“No, quale concorrenza? Io sono l’unico barbiere italiano del quartiere: chi vuole farsi i capelli bene viene da me”.

Galvanizzato dall’autostima del signor Francesco mi accingo a spiegargli il taglio che vorrei, che poi è lo stesso che comunico a qualunque barbiere da una decina d’anni a questa parte, dal momento, cioè, in cui ho cominciato a rassegnarmi alla mia calvizie. “Dai lati con la macchinetta, qui sui bordi un’arrotondata con le forbici e sopra giusto una spuntatina, ma poco eh”.

Il signor Francesco è andato via dalla Puglia a vent’anni, che il mestiere lo sapeva già. Il padre era un carbonaio, mi dice, e a me vengono in mente i moti e le società segrete dell’Ottocento, che ovviamente non c’entrano nulla. Suo padre, mi ragguaglia, andava nei boschi a far legna da trasformare in carbone vegetale, mestiere che oggi non fa più nessuno. Sua mamma era una casalinga, entrambi pugliesi. “Ho fatto il militare a Sanremo e poi nel 1972 sono arrivato a Milano e ho iniziato a tagliare capelli e a fare la barba”. A Cornaredo, alle porte della metropoli, ha messo su famiglia e i suoi due figli ne hanno imitato le orme, regalandogli dei nipoti. Sua moglie è pugliese come lui, mi dice, e preso dall’atmosfera famigliare mi lancio in una battuta sulle mogli e suoi buoi.

“No, sì, è una brava donna mia moglie, di quelle all’antica. Rispettosa, cucina, fa tutto lei, non mi fa alzare manco un bicchiere. Non come quelle coppie di oggi che si sposano e una cucina e l’altro lava i piatti”. In mezzo a tanto tradizionalismo domestico provo a suggerire che forse lei lo fa perché non ha un lavoro. “Lo faceva pure prima quando lavorava. Fino a qualche anno fa avevamo una pizzeria che gestiva con mia figlia. Però si organizzava. Per esempio il giorno prima preparava da mangiare per il giorno dopo: è tutta questione di organizzazione”.

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