Sono le 2 e 38 di mattina, anzi ora e 39, e non si è visto un solo fiocco di neve ancora. Le previsioni non ci azzeccano mai; o forse perchè Milano con tutto il suo smog vanifica il lavoro di team di esperti meteorologi. Sta di fatto che ancora: nisba!
Qui seduto sulla mia sedia da studio/poltrona rotante leggo blog, mi appassiono a storie, imparo cose. Basta poco: due lampade accese e rivolte verso il muro, il silenzio tutt’attorno, il mio pigiama largo e la testa sgombra dai pensieri.
Sulla mia scrivania giace il libro di Peter Burke, La storia culturale, che sto preparando per il mio ultimo esame e che oggi ho finito di leggere. Poi un pacchetto di chewingum aperto, la mia nuova bellissima Molskine (che in realtà non volevo comprare perchè è da snob-finti intellettuali, ma non ho resistito alla copertina in edizione limitata), la tazza del musical Wicked (che il mio amico Egidio mi ha portato da Nuova York [lo odio!]) piena di pennarelli colorati, vicina ad altre tazze e portapenne di ogni forma e dimensione; un pacchetto di Winston, una foto dei miei fratelli, il mio libretto universitario, i libri del mio ultimo esame (dei quali devo disfarmi). Lo so non è una scrivania entusiasmante, ma per me è essenziale. D’ora in avanti che avrò da scrivere la tesi, la frequenterò per lungo tempo (degna sostituta di una relazione seria (sic!)).
Le pareti mal verniciate della mia stanza sono tappezzate in larga parte da ricordi e pezzi della mia vita: il poster con la frase di Woody Allen “Leggo per legittima difesa” donatomi dalla casa editrice dove ho fatto un mese di stage (magro stipendio, ma c’est l’Italie); le foto  di viaggi passati, che un tempo mi sembravano più belle; i miei disegni di personaggi animati fatti durante le lezioni; le più importanti figure retoriche appiccicate all’armadio; il biglietto dell’ultimo spettacolo di Filippo Timi, del concerto dei Baustelle, di Brunori Sas, della mostra fotografica di Steve McCurry, di Dalì, l’ingresso alla pinacoteca di Brera.
Ho costruito una vita in una stanza, una vita durata tre anni quasi e che ricomincerei subito. Tre anni che ora volgono al termine e che aprono la porta verso un abisso di incertezza e vulnerabilità.
L’università è un nido protettivo che ti fa capire che non tutte le bibliotecarie usano perfettamente l’italiano, che alcuni professori ti obbligano a comprare i propri libri, che la prima rata è uguale per tutti, che alcuni esami sono ridicoli, che altri li devi fare due volte (per approfondire), che ci sono molti assistenti frustrati, che ci sono molti professori ormai rimbambiti, che i compagni di corso si chiamano colleghi, che la pausa sigaretta dura un paio d’ore, che andare a mensa implica occupare i posti col cappotto mentre fai la fila, che ogni giorno qualcuno si laurea ricordandoti che sei indietro, che se non fai periodiche capatine in segreteria rischi di scoprire in punto di laurea che il verbale del tuo esame è  andato smarrito, che tante altre cose. Ma soprattutto, e tante se ne possono dire, che chi studia davvero per il piacere di farlo, ha la possibilità di apprendere tanto.
Amo i cortili universitari dove si parla, ci si conosce, si discute; amo essere fermato per indicare a qualcuno la Biblioteca di Filologia moderna o il dipartimento di Scienze dell’Antichità; amo salire in ascensore con i professori; amo il quarto d’ora accademico; amo prendere in giro il modo di esprimersi dei professori a lezione; amo incazzarmi perchè non c’è un cazzo di posto in biblioteca e m’innervosisco perchè sono inritardo con l’esame; amo l’adrenalina di rispondere all’appello davanti a tutti; amo firmare soddisfatto il registro d’esame.
So che tutto questo mi mancherà già.

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