I dubbi e le paure, i dolori e la nostalgia. Chi è nato in un piccolo paese di provincia lo sa. Amore e odio, l’abbandono e il riavvicinamento. Il non sentirsi mai a casa né fuori né dentro.
Le processioni patronali, le storie dei vecchi, gli scandali e le dicerie, le case abbandonate, i pomeriggi dai pantaloni bucati, le guerre fra rioni a colpi di bombe d’acqua, i club segreti in magazzini fatiscenti, l’occupazione dei treni nei depositi, la caccia alla femmine, i banchetti per la vendita di limonata, le baracche in riva al fiume.
Le bancarelle della domenica, le tagliatelle fatte in casa, la legna per il caminetto, i falò di Natale, i narcisi a Pasqua, la pioggia a Pasquetta. Gli amori e i disamori, le sigarette nei vicoli furtivi, la pizza del sabato, ma non tutti, perché non è che siamo ricchi.
La maturità, l’abbandono, la consapevolezza critica, l’asfissia, la rabbia, la lotta, la presa di distanza, la resa.
Il ritorno cadenzato, lieve e ingenuo, le domande retoriche, gli sguardi e le conversazioni vacue, l’accettazione, la mancanza, un nuovo amore.
Credi di dover affrontare tutto il peso da solo fino a quando non scopri che prima di te, e insieme a te, donne e uomini sanno quello che provi, sanno anche loro che “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. Sono certi che “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Lo sapeva Pavese, che lasciava per sempre il suo paese 65 anni fa.
Lo sa Antonio Dimartino che racconta tutto questo con soavità e grazia nelle sue canzoni. Impossibile non commuoversi e percepire come assottigliato e condiviso quel sentimento di nostalgia. Almeno per qualche ora.
[Antonio Dimartino, Un paese ci vuole tour – Salumeria della Musica, Milano – 29 aprile 2015]