Un altro modo di dire casa

A Prato mi sorprende una tersa giornata di fine autunno. I raggi del sole scaldano una vecchia macchina da cucire Necchi, posta all’ingresso dell’atelier di Noell Maggini, a pochi passi dal centro, che mi ricorda quella che usavano mia nonna e le mie zie. Noell, venticinque anni, viso incorniciato in una folta barba corvina e leggero accento toscano, mi accoglie affabilmente e m’invita a dare un’occhiata con calma, così che possa finire di passare l’aspirapolvere. Osservo tutt’intorno abiti, gioielli e accessori in esposizione e rifletto su quanto poco io capisca di moda. “In questo periodo il lavoro è tanto, stiamo preparando la collezione per il Pitti Uomo” mi racconta mentre ci sediamo intorno a un grosso tavolo disseminato di rotoli di stoffa, un metro giallo e altri attrezzi del mestiere. “Nei periodi più calmi di solito incontro i clienti che hanno bisogno di campionari o vado a comprare le stoffe nelle aziende della zona. Praticamente faccio moda a km 0”. Traspare una genuina fierezza mentre mi racconta dei lavori che ha fatto per mettere in piedi il negozio. Le pareti striate d’oro le ha tinteggiate lui stesso. “Figurati quando i miei genitori sono venuti qui per la prima volta: non riuscivano a credere che avessi fatto tutto questo da solo”.

Noell viene da una famiglia con una lunga tradizione giostraia alle spalle, mestiere che insieme al circo è un po’ il tratto caratteristico del popolo sinto. Sia gli Orfei che i Togni, per fare due nomi, hanno origini sinte. I parenti di Noell, da entrambi i rami, hanno gestito per almeno tre generazioni luna park itineranti, lasciando che il calendario delle feste di paese scandisse la loro vita e i loro spostamenti. Il padre discende da sinti tedeschi e austriaci che nel loro peregrinare hanno finito per stabilirsi tra le Marche e la Toscana. “Ci credi se ti dico che mio nonno paterno ha fatto il cuoco per i nazisti? Ovviamente non sapevano che fosse un sinto”. Porajmos è il termine con cui rom e sinti si riferiscono allo sterminio della loro gente a opera del nazifascismo. Le vittime di questo grande divoramento sono circa 500 mila. Prima di oggi ero all’oscuro di questa espressione, così come del fatto che la parola sinti indica sì il popolo nomade di origine indiana (proveniente probabilmente da Sind, una regione del Pakistan occidentale), ma che nella lingua italiana è sia un sostantivo che un aggettivo, quindi normalmente declinabile.

Proprio in Toscana suo padre incontra sua madre, una sinta italiana d’origini tedesche con qualche gene rom ungherese. “Come da perfetto copione sinto, s’innamorano e fanno la scappatella” dice Noell ridendo. Da quell’unione nascono tre sorelle e per ultimo lui. Solo la terzogenita porta avanti la tradizione giostraia. “In casa parliamo il sinto, che è una lingua completamente diversa dal romanì. È come se dici a uno di Napoli che è Milanese, un po’ gli piglia male”. Intorno agli anni Ottanta a sparigliare le carte ci pensa un pastore sinto francese, arrivato in Italia per fare proseliti. Il suo nome è Jacob Landauer, come Giacobbe, il patriarca dell’antico Testamento. “Ovunque ci fosse un sinto o un rom lui andava a predicare la religione cristiana evangelica”. La madre è presto rapita dalle parole del pastore e si converte: “Smette di bere, di fumare, di dire parolacce, e soprattutto di ballare, cosa che per un sinto è quasi contro natura, visto che per ballare noi c’inventiamo feste che non esistono”. Suo padre non riconosce più la donna che ha sposato, alterna nervosismo a gelosia, ma lei per tutta risposta si fa battezzare di nascosto.

Non passa molto tempo che anche il padre si convince che abbracciare quella fede sia la scelta giusta, ma per far spazio alla religione devono rinunciare a qualcosa delle loro vite. “Piano, piano, abbandonano alcune tradizioni sinte, come le giostre per esempio. Oppure a me e a mia sorella, nati dopo la conversione, ci danno un nome solo”. I sinti, mi spiega, usano dare due nomi ai propri figli, uno sinto e uno italiano (nel caso dei Maggini), più semplice per i documenti. La più grande delle figlie si chiama Fraida Francesca, che vuol dire Gioia, mentre la seconda si chiama Raili Cristina, che significa Bella. “Io mi chiamo Noè, come quello dell’Arca e mia sorella Naomi, come la suocera di Ruth”, ride dando per scontato che io conosca tutta la genealogia postdiluviana. “Con dei nomi così non potevamo che crescere in una famiglia molto religiosa”.

Non potendo più fare affidamento sulle giostre, attività poco gradita al nuovo credo, i genitori di Noell cominciano a fare gli ambulanti vendendo piante, bottigliette di vetro soffiato e piccole sculture di fili di rame e perline. “Poi per fortuna si sono evoluti e hanno iniziato a fare dei lavori normali” dice ridendo. Il padre adesso fa il ferravecchio e ha messo in piedi una piccola cooperativa, la madre fa le pulizie negli appartamenti. “A volte quando torna a casa dice ‘Ah quanto mi piacerebbe vivere in appartamento!’”. Noell mi vede perplesso. “Dai, vieni che ti porto a casa!”. Così ci mettiamo i cappotti e c’infiliamo in macchina.

 


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