Il lago in lontananza brilla prepotente, avvolto dall’aria pulita dell’Alto Vergante. Dalle finestre della cucina di Roberta Lucchini si gode di una vista che mette quasi in soggezione. Col fare sicuro dell’ospite, Roberta porta in tavola tre tazze di tè fumante, un piatto di biscotti e una ciotolina con lo zucchero in cristalli che non avevo mai visto altrove. Abbiamo un paio di ore, prima che scenda di sotto al pianterreno per aprire il negozio di famiglia. “Alcuni clienti abituali vengono puntuali e se ritardo di un minuto me lo fanno notare”, dice ridendo. A Massino Visconti, paesino in collina sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, il suo alimentari è rimasto l’unico a disposizione delle 500 famiglie che ancora ci vivono. “Con il lockdown tutto sommato abbiamo lavorato perché quelli di qui non si spingevano altrove per via delle restrizioni. Però pensa che negli anni ottanta eravamo in sette e di lavoro ce n’era per tutti. Nella stagione turistica gli abitanti di Massino triplicavano. Ora ci sono solo io, se ce la faccio terrò aperto ancora qualche annetto”.

Roberta da ragazza immaginava una vita avventurosa, voleva andare in Africa, vedere il mondo. Invece è rimasta sempre a Massino, dove si è innamorata, è rimasta incinta e ha preso servizio nell’attività dei suoi genitori. “Da giovani con mio marito prendemmo in gestione un bar e andava molto bene. Il nostro sogno era di venderlo e trasferirci alle Canarie per vivere e lavorare lì. Ma quando nostra figlia doveva iniziare le scuole, non ce la siamo sentita di fare questo passo. Così abbiamo preso un appartamentino vicino al negozio e ci siamo fermati qui. Tornassimo indietro partirei subito”.

In quegli stessi anni, in Costa d’Avorio, un padre sta registrando all’anagrafe la nascita di suo figlio Inza, ma l’impiegato non capisce bene la pronuncia dell’uomo e scrive Inssa sul registro della prefettura. Questo bambino dal nome sbagliato cresce in un villaggio rurale nella prefettura di Diarna, a nord del Paese. I genitori lavorano nei campi di cotone e di mais alle dipendenze di suo zio, fratello del padre e capo famiglia: da lui tutto dipende, a lui tutto è dovuto. A sette anni Inssa comincia a lavorare in campagna con la famiglia, per lui la scuola non è contemplata. Nel suo futuro c’è un matrimonio combinato e una vita a spaccarsi la schiena per lo zio, in cambio di cibo e di una casetta messa in piedi alla bell’e meglio. Quando muoiono i suoi genitori Inssa non ha più nessun motivo per rimanere e scappa dal suo villaggio.

Insieme agli altri cinquanta paesi adagiati sulle pendici del Mottarone, montagna granitica delle Alpi Pennine, anche Massino Visconti fa parte della patria dei Lusciàt, una parola che in realtà non significa niente, né in italiano né nel dialetto locale. È un termine inventato e fa parte del gergo Tarusc, una specie di lingua segreta inventata dagli ombrellai ambulanti che dal Settecento partivano da queste terre per riparare gli ombrelli altrui, di città in città. Lusciàt significa appunto ombrellaio, perché la luscia, in questo idioma segreto, è la pioggia. In qualche biblioteca del Vergante è possibile recuperare un dizionaretto etimologico del Tarusc. All’ingresso del paese alcuni murales ricordano i fasti di questi professionisti dell’ombrello, il cui viaggio iniziava il giorno di Capodanno e durava parecchi mesi, nei quali mangiavano l’indispensabile per non morire, si accampavano in vecchi fienili e cercavano di risparmiare il più possibile per le proprie famiglie. I più avventurosi tentavano la sorte spingendosi all’estero e giungono notizie di lusciàt che hanno fatto fortuna a New York e a Sidney, ma pure a Torino.

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