Nei primi anni duemila su Rai Due andò in onda una miniserie horror sceneggiata da Stephen King in persona, dal titolo La tempesta del secolo. Gli abitanti di una cittadina del Maine, per fronteggiare una terribile e imminente tempesta, si rifugiano in una palestra comunale carichi di viveri, coperte e lanterne, con la certezza di lasciare il peggio oltre quelle mura. Inutile dire che, proprio nel posto in cui cercavano riparo, a quei poveri cristi capitano le peggio cose.

Oltre a disturbare i miei sogni per le settimane successive, quella miniserie m’insinuò nella mente un desiderio proibito: sperare che un giorno una catastrofe, un cataclisma o un’epidemia paralizzasse la città e mi costringesse a seppellirmi in casa con viveri e corrente elettrica razionati. Certe sere per addormentarmi fantasticavo su strade deserte, su tormente di neve da affrontare rinforzando le finestre con mezzi di fortuna, sulla necessità di girare per casa avvolto in coperte pesanti per non soccombere al freddo, o a illuminarmi con lanterne e candele, mangiando fagioli in scatola per l’esiguità dei viveri.

Sì lo so, a pensarci adesso che da ormai due mesi siamo imprigionati in un brutto sceneggiato di fine anni novanta firmato da Stephen King, fa un certo effetto, ma giuro che io non c’entro niente. Oltre le finestre infuria il Coronavirus, la nostra tempesta del secolo. Le strade di tutto il mondo sono deserte, le città paralizzate. E noi chiusi in casa, per fortuna con viveri e corrente elettrica illimitati, attendiamo che tutto prima o poi finisca, avvolti in coperte come il ripieno dei cannelloni. Ma magari quest’ultima pratica non è così diffusa fuori da casa mia.

Come succede ne La tempesta del secolo, il pericolo è nella palestra con noi, oltre che là fuori. Il pericolo siamo noi. Perché, dopo gli entusiasmi e i buoni propositi iniziali, nessuno ha più tanta voglia d’impastare pane, di sfornare dolci, di guardare le conferenze della protezione civile, né di tagliarsi i capelli. E quello che resta, alla fine, siamo noi con la nostra testa, e spesso non è che siamo proprio un’ottima compagnia. Ho letto in un articolo di Annamaria Testa – fonte sempre valida d’ispirazioni e ragionamenti approfonditi – di uno studio scientifico che evidenzia come i partecipanti all’esperimento, piuttosto che starsene un’ora da soli coi propri pensieri, abbiano preferito infliggersi una scossa elettrica. Mi viene da pensare che le pagnotte, la ginnastica su YouTube, gli armadi riordinati, le infinite videochiamate siano solo un disperato tentativo di rimandare il più possibile l’incontro con noi stessi. Così come nella vita a.C. (avanti Coronavirus) lo erano probabilmente i “non ho tempo”, i “vado di corsa”, gli aperitivi, i “sono oberato”.

Io qualcosa di me l’ho scoperta durante questa quarantena. In queste settimane, i miei libri, i miei film, i miei racconti, mi sono venuti in soccorso per farmi dimenticare la tempesta oltre le finestre. E, ancor di più, per farmi capire che io non sento alcun viscerale bisogno di dover dire sempre qualcosa a qualcuno. Le tempeste della mia vita mi hanno in qualche modo costretto a farmi andar bene me stesso, a fare i conti con la mia testa fino a trovarci un angolo più o meno confortevole. Quasi per non farmi trovare impreparato davanti a un momento come questo.

Forse il senso di questa nostra tempesta del secolo sta proprio qui, nell’imparare a stare un po’ meglio con noi stessi. O quanto meno a non starci troppo sulle palle. Ché in fondo, se non siamo buoni per noi, non siamo buoni nemmeno per gli altri.

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