Temere l’ombra

Il signor Rocco non desiderava altro che un pezzo di terra su cui costruire la sua casa in montagna e quei due ettari sul massiccio del Pollino facevano proprio al caso suo: una distesa di erba medica adagiata su un altopiano a 1.015 metri d’altitudine nella località Campotenese, frazione di Morano Calabro, porta d’accesso naturale al parco nazionale più grande d’Italia.

In una calda giornata di mezza estate ho provato a sedare il senso di vergogna che mi pervade quando penso che so così poco della terra da cui sono andato via. Non ero mai stato a Morano, per esempio, definito il presepe del Pollino per come le casette si avviluppano sul colle sui cui sorge. Non sapevo nemmeno che il Pollino fosse da alcuni considerato il monte di Apollo, o da altri addirittura l’Olimpo della Magna Graecia (sì, in Calabria siamo molto attaccati ai fasti del passato). Così come non sapevo nulla del parco che lo circonda. Niente delle vette che superano i 2000 metri, niente dei fossili di molluschi marini e dello scheletro di un elefante rinvenuti in queste valli. Niente delle piante officinali che vegetano a queste altitudini, né del pino Loricato che si trova solo qui e nei balcani. Niente delle gole profonde, dei canyon naturali, delle rapide, dei fiumi, dei dirupi, delle grotte, dei pianori, dei pascoli ad alta quota; e c’è voluto il film di Michelangelo Frammartino – Il buco – premio speciale della giuria all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, per farmi scoprire l’esistenza dell’Abisso del Bifurto, una delle grotte di origine carsica più profonde del mondo che si trova proprio a una cinquantina di chilometri dal terreno dei Rocco.

“Mentre la casa veniva su, io e i miei genitori piantavamo nuovi alberi e facevamo lunghe passeggiate per scoprire i dintorni” mi spiega Selene, mentre ci sediamo su una panchina di legno, al riparo dai numerosi visitatori. “Un giorno, salendo un po’ d’altitudine, siamo rimasti molto meravigliati nel trovare un sacco di lavanda spontanea a bordo strada, così ne abbiamo fatto qualche talea con l’idea di portarla qui da noi. Nel frattempo abbiamo cominciato a fare qualche domanda agli abitanti del luogo”.

I vecchi del versante calabrese del Pollino non hanno dubbi: in questa zona con la lavanda ci si campava. Donne e bambini, di notte per sfuggire al canicola estiva, riempivano ceste e ceste della lavanda che qui cresceva spontanea e abbondante. A suon di falce recidevano gli odorosi rametti che portavano presso la fontana della contrada Barbalonga, dove avveniva la  distillazione. Ironia della sorte, in quella stessa contrada sorge il terreno dei Rocco.

“Abbiamo scoperto che dalla Linetti venivano qui a rifornirsi dell’olio di lavanda per la loro brillantina e così faceva l’industria farmaceutica Carlo Erba di Genova. Le mogli dei pastori cucivano dei mazzetti di lavanda nella fodera delle giacche dei mariti, così d’allontanare l’odore del bestiame. Ce n’erano distese e distese. Poi quando il Pollino divenne la legnaia del Duce, che ordinò di rimboscare la zona con pini neri non autoctoni, la lavanda spontanea sparì”.

Appresi questi fatti antichi, Selene e la sua famiglia si mettono in testa di riempire nuovamente di lavanda questa zona. “Ultimata la casa, i miei genitori si sono trasferiti qui e io li ho seguiti qualche anno dopo. Mentre provavamo a moltiplicare le talee, mia mamma, appassionata di oli essenziali, con l’aiuto di mio padre, perito chimico, ha iniziato anche a distillarla producendone un olio rivelatosi subito miracoloso sull’onicomicosi dell’alluce. Sapevamo di avere qualcosa di prezioso tra le mani, ma ci serviva una conferma scientifica”.

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