Le confessioni del signor R.

Risponde dopo tre squilli, la sua voce è roca. Mi dà l’indirizzo preciso ma io suggerisco di vederci fuori, magari in un bar lì vicino, così, per non disturbare. “No, vieni qui a casa, tanto non c’è nessuno e possiamo parlare tranquillamente”. Mi dico se non stia facendo una cosa sciocca a incontrarlo, da solo, in un posto che non conosco, ma cerco di allontanare quel pensiero per tutto il tragitto sul tram. Prima di suonare il citofono, condivido la posizione con chi mi aspetta a casa, cessando di fingere di essere un cuor di leone privo di pregiudizi. L’aria è fredda e umida, il sole sta quasi per tramontare. A due passi da qui c’è L’ultima cena di Leonardo e mi sforzo di credere sia solo una bizzarra coincidenza.

Il telefono da cui mi ha chiamato glielo hanno consegnato quella mattina, che le nove sono passate da un pezzo. Con una piccola borsa col cambio per la notte, il signor R. si è avviato verso l’uscita della sezione A, al secondo piano del carcere di Opera. Ha superato i controlli, ha firmato quello che c’era da firmare e ha varcato il portone principale. L’indomani entro le diciotto dovrà eseguire al contrario quella sequenza di operazioni. Ha davanti a sé una notte e quasi un giorno di qualcosa di simile alla libertà.

Mi accoglie in un soggiorno-cucina dalla pareti bianche. Il piccolo televisore è sintonizzato su uno di quei programmi in cui i concorrenti cercano di fare affari con delle cianfrusaglie che tengono in casa. In un angolo un divano letto, accanto alla porta del bagno. Di fronte quella che presumo essere una stanza da letto. “Posso offrirti un bicchiere d’acqua? C’è solo quella”. Il signor R. si comporta come un buon padrone di casa, anche se l’appartamento non è suo ma dell’Associazione Il Girasole Onlus che lo mette a disposizione dei detenuti momentaneamente fuori in permesso.

Ci sediamo intorno a un tavolo degli anni settanta, uno di fronte all’altro. Ci dividono un pacchetto di sigarette, un accendino e due sacchetti trasparenti con qualche pillola. “Queste sono per il colesterolo, queste per la pressione, queste per la ritenzione idrica. Poi c’è una cardioaspirina per il cuore e un Tavor che mi aiuta a dormire la notte”. Dentro è vietato fumare, mi avvisa. Lui di solito scende in strada ma solo fino alle nove di sera, dopo quell’ora non può mettere nemmeno il naso fuori dalla porta. “Stamattina sono andato da un mio amico che ha una lavanderia qui a Milano e gli ho portato qualcosa da lavare” mi dice quando gli domando come ha trascorso la giornata. “In cella me li lavo a mano nel lavandino, ma ci mettono una vita ad asciugare con l’umidità che c’è”. Riconosco un lieve accento del Sud, ma non saprei collocarlo con precisione. Il signor R. può uscire spesso perché ha parecchi permessi premio. “Sono stato nominato detenuto modello, per questo tre volte all’anno posso andare a trovare mia figlia in Puglia”. Quando invece esce per pochi giorni resta a Milano, va a salutare qualche amico, fa qualche piccolo acquisto, si concede un pasto in un’osteria fidata o la compagnia di una signorina. “Tu sei uomo come me e mi capisci”.
 

Ride portandosi una mano alla bocca, per coprire lo spazio lasciato vuoto da un paio di denti. Ha un viso rotondo, perfettamente rasato, ad eccezione di un paio di baffetti brizzolati. Si alza un po’ a fatica dalla sedia per andare ad abbassare il volume della tv. Indossa un maglioncino nero attillato, soprattutto sulla pancia. “Tu mi vedi così, ma io ero uno sportivo, giocavo benissimo a calcio, tanto che alcuni dirigenti della Fiorentina volevano acquistare il mio cartellino per due milioni di lire. Se mio padre non si fosse opposto oggi avrei alle spalle una carriera in serie A. Possiamo dire che da lì sono cominciati tutti i miei guai”.

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