Profumo in un’altra lingua

Il grande oblò della macchina per il lavaggio a secco è colpito trasversalmente dai raggi del sole, che s’insinuano tra le trapunte impilate su un grosso scaffale, chiuse in sacchettoni di plastica. Tutto intorno c’è odore di pulito. Abir sorride assecondando il mio entusiasmo infantile quando le dico di aver scoperto che il suo nome significa “profumo”: viene, mi dice, dal verso “il profumo delle tue mani” di una canzone di Umm Kulthūm, diva egiziana della prima metà del secolo scorso, a tal punto celebre che il Parlamento interrompeva le sedute per permettere ai deputati di ascoltare i suoi concerti alla radio. Al suo funerale, nel 1975, presero parte così tante persone da formare un corteo lungo undici chilometri.

La lavanderia di Abir lambisce il limite meridionale del quadrilatero popolare di San Siro, zona ovest di Milano, abitato per lo più da persone di origine araba. Il negozio fa angolo al pianterreno di un palazzo arancione acceso, tinteggiato di recente, e sulla porta d’ingresso troneggia l’insegna “Lavasecco – Ecologico”. Lei serve i clienti dietro a un piccolo bancone blu, posto proprio di fronte all’entrata. Alla sua destra c’è la catena rotante che sorregge i capi appesi e alle sue spalle, accanto alla macchina per il lavaggio a secco, si accede al retrobottega attraversando una tenda di lana intrecciata. Lì dietro, nell’altra metà, s’intravedono due uomini, egiziani anche loro presumo, intenti a stirare. Uno sembra anziano e allampanato, l’altro più giovane e corpulento. M’infiammo come se avessi realizzato in quell’istante che in Egitto la parità di genere è stata già raggiunta da un pezzo. Abir sorridendo si gira per guardare i due stiratori. «Non è così facile», mi risponde dalla sua metà, «Fanno ancora fatica ad accettare di dover prendere ordini da una donna, ma col tempo ho imparato a farmi rispettare».

Abir viene da una famiglia cristiana copta, una minoranza religiosa in un Paese dove quasi il 90% della popolazione è di fede musulmana. Lei e le sue quattro sorelle hanno studiato a Notre Dame des Apôtres, un collegio privato bilingue del Cairo fondato da missionari francesi, per volontà di suo padre. «Era davvero una persona meravigliosa». Quando parla di lui, la voce di Abir si fa più fragile «Voleva che avessimo un titolo di studio alto e una buona educazione». Preferiva che le figlie non prendessero i mezzi pubblici, così ogni mattina le accompagnava a scuola e andava a riprenderle alle due e mezza. «Vivevamo in periferia, ma non troppo, in una zona chiamata “l’occhio del sole”, piena di scavi archeologici. Tornavamo a casa a mangiare e, dopo un riposino di mezz’oretta, papà aiutava tutte noi a studiare, in ogni materia. Mia mamma invece si è sempre dedicata alla casa». Dopo il Liceo, Abir ha proseguito nelle aule della Facoltà di Lingue del Cairo. Mi racconta, piena di orgoglio, di una città moderna e cosmopolita, coi canali della tv in arabo-francese, o arabo-inglese, e i film trasmessi in lingua originale coi sottotitoli.

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