Tutto è iniziato con una lettera scritta a mano, un anno fa, nella giornata della festa della mamma. La primavera è già scoppiata intorno alla casa di Giovanna, nelle campagne di Cerreto Guidi, in provincia di Firenze. Il sole bacia le piantine di pomodoro nell’orto, mentre il suo levriero Drake corre veloce sul prato. Seduta all’aperto, Giovanna scrive di sé a una sconosciuta.

Qualche giorno più tardi, a Montemerlo, in provincia di Padova, a pochi chilometri da Vo’, recentemente e tristemente balzato agli onori della cronaca, Camilla apre la sua cassetta della posta di rientro dalla scuola elementare dove insegna. Aspetta la sera per leggere quella lettera, la penombra l’aiuta a concentrarsi, concedendole il privilegio di un momento solo per se stessa.

Giovanna le confessa la paura per questi tempi incerti, fatti d’isolamento e di abbracci spezzati, ma anche del coraggio che prova a farsi per andare avanti. Le racconta che il suo nipotino si lava le mani in continuazione e le confida quanto le manchi Mauro, suo figlio. Le due donne non si sono mai viste prima, ma sanno di parlare la stessa lingua. Così accettano l’invito di un’amica comune e iniziano a tenere un diario epistolare.

“Sono Camilla, la mamma di Niccolò” si presenta, quando le chiedo di raccontarmi di lei, in un pomeriggio di fine aprile. “Mio figlio non c’è più da quasi dodici anni, in due mesi una malattia se l’è portato via. Aveva tredici anni e da allora la mia vita è stata ribaltata. Io, mio marito e Tommaso, l’altro mio figlio, abbiamo dovuto ricominciare in tre, ci siamo dovuti reinventare un nuova quotidianità, un nuovo modo di stare che ha assunto altri connotati, con altri percorsi, altre strade”.

È ferma Camilla nelle sue parole, impassibile nei movimenti del viso. Delle piccole rughe d’espressione costeggiano i suoi occhi. Ha vissuto vicino a Chioggia fino ai trent’anni e nelle sue e si assapora il veneto. Insegna italiano, educazione motoria, arte e immagine e musica a una terza elementare, in una scuola a quaranta minuti da casa. “Il mio lavoro è stato la mia salvezza, durante la pandemia ma in generale nella vita. Quando entro in classe sono solo Maestra Camilla e lascio fuori tutto quello che non è la gioia d’imparare, di vivere, di relazionarsi. Chi sa come sono, se ieri mi avesse vista ballare con i miei alunni, non mi avrebbe riconosciuta”. Dopo la scuola torna a casa e non balla più.

Giovanna, per i parenti Giannina, invece sorride di continuo. E se non sorride, ride proprio di gusto. È nata in Francia da genitori emigrati con la Toscana nel cuore, a cui poi hanno fatto ritorno. “Mauro se n’è andato nel giorno del suo ventottesimo compleanno. Era uscito con gli amici a mangiare una pizza per aspettare la mezzanotte e non si sa come, verso le 22:30, sono finiti fuori strada. Si pensa per dei cinghiali che gli hanno tagliato la strada. Alle quattro di mattina i carabinieri mi suonano alla porta e sulle prime ho pensato che Mauro avesse fatto una bravata. Mi hanno comunicato che invece era stato trasportato d’urgenza al Careggi di Firenze. Non sono riuscita a parlare con mio figlio perché quando sono arrivata era già entrato in coma e si è spento poche ore dopo. L’unica cosa che ho potuto fare è stata scegliere di donare i suoi organi. Hanno preso tutto del suo corpo, dagli organi interni alla pelle, riuscendo a salvare un sacco di vite. Mauro era generoso, lo avrebbe fatto anche lui”.
Si dice che perdere un figlio sia il dolore più grande che si possa provare, e in fondo lo penso anche io. Ma una volta ho letto in qualche libro che quando si soffre ognuno lo fa a modo suo, ed è la gravità di questa sofferenza, non la sua ragione, che conta. E questo credo sia ancora più vero.

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