Il posto a cui appartengo

La Fiat Stilo nera su cui sono appena salito odora di campagna. Alla guida c’è Marco che è venuto a prendermi alla stazione di Grosseto, ma l’auto non è di sua proprietà. La città lentamente cede il passo alla macchia maremmana fino a quando una stele non ci indica che siamo arrivati. “Come vedi non ci sono né cancelli né mura”. Un’incisione sulla pietra recita Nomadelfia, la città dove la fraternità è legge.

Nella vita fuori, dopo una laurea in Lettere, Marco lavorava all’Esselunga. Da cinque anni vive qui con la sua famiglia ed è stato assegnato all’ufficio accoglienza. “Ti faccio fare un giro, poi ti accompagno al tuo gruppo familiare” dice affabile. La vegetazione rigogliosa spadroneggia su quest’area collinare di 4 km quadrati, donata a metà degli anni ’50 dalla contessa Maria Giovanna Albertoni Pirelli, quella degli pneumatici, a don Zeno Saltini, il Fondatore.

Alla sua vita e alle sue azioni qui ci si riferisce con la reverenza e la devozione che si riserva ai santi. Gli spezzoni dei discorsi di don Zeno vengono proiettati ogni sera nell’ora della Cultura, a cui gli abitanti di Nomadelfia sono tenuti a partecipare dopo il lavoro, per abbeverarsi alla fonte del Fondatore. Cresciuto nella società contadina modenese, don Zeno nei primi anni ’30 del secolo scorso si fa padre dei bambini rimasti orfani a causa della guerra. Il suo progetto è semplice: vivere il Vangelo come i primi cristiani, attraverso la creazione di una società nuova dove tutti sono fratelli e tutto è di tutti, anche i bambini. Intorno a lui si aggregano alcune ragazze che si sentono chiamate alla maternità di vocazione, a partire da Irene che a 18 anni scappa di casa per diventare la mamma dei figli di don Zeno.

Arriviamo al gruppo familiare che mi è stato assegnato mentre il sole si accomoda sulle mura di pietra e sul glicine. In questa cascina vive uno dei dodici gruppi familiari, nucleo fondativo della società di Nomadelfia partorito dalla mente del Fondatore. Mi viene incontro Elia per darmi il benvenuto mentre una decina di ragazzini scorrazza intorno a noi. “Ci vediamo dopo al Rosario, se ti va” si congeda Marco e io resto con quella che per i giorni successivi sarà la mia famiglia, anzi il mio gruppo familiare. Ogni gruppo è composto da quattro o cinque famiglie, qualche single e alcuni anziani che vivono insieme ogni momento della giornata, dalla colazione alla tv dopocena. Per la notte invece ogni famiglia ha una suo prefabbricato indipendente coi letti e il bagno. Come in un gioco di società, questi gruppi vengono mescolati e fatti traslocare ogni tre anni perché nessuno deve affezionarsi troppo a cose o persone. Tutto è caduco e in comune, il Fondatore è stato chiaro.

Alla spicciolata una decina di adulti, una nidiata di bambini, tre o quattro adolescenti e qualche anziano, raggiunge la sala da pranzo, prende dalla credenza il tovagliolo di stoffa col proprio nome ricamato sopra e se lo porta a tavola. “Puoi sederti dove vuoi, non abbiamo posti assegnati” mi istruisce Elia “Prima però diciamo la preghiera”. Le donne in cucina stanno disponendo vassoi di acciaio con la cena su un carrello portavivande. La sala da pranzo è composta da tre tavoli di legno che formano un ferro di cavallo. Su ogni tavolo sono state disposte le caraffe con l’acqua, il vino di loro produzione, le ciotole con la lattuga del loro orto e il pane. Tendendomi la mano mi si avvicina Benedetto, che sarà la mia guida nei giorni successivi. È alto, porta gli occhiali e ha i capelli ricci già intrecciati di fili bianchi che lo fanno sembrare più grande dei suoi 31 anni. “Domani ti romperò un po’ le palle” dico io per fare conversazione, ma subito penso che avrei potuto scegliere meglio le parole. Lui ride e dice che gli fa piacere, in fondo l’obiettivo di Nomadelfia è testimoniare che un altro modo di vivere è possibile. Una bambina, che presumo essere la figlia di Elia, chiede al padre se può condurre la preghiera.

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