Il treno è passato

Non mi ricordo né la prima né l’ultima volta che sono salito sulla littorina. L’unica cosa certa è che ho sempre sbagliato a chiamarla. Nella mia testa quella parola era difettosa, dialettale, un termine che usavano i vecchi, mentre io ero stato istruito a parlare l’italiano. Così mi sono sempre riferito a quel treno con lettorina, con la e, perché mi sembrava più elegante, più forbito. Fino a non molti anni fa, per lo meno, quando ho scoperto che il suo nome deriva da quel fascio littorio di cui molti paesi d’Italia portano ancora i segni. Ci salivo da piccolo per andare al mare da mia zia e dai miei cugini di città, spesso erano loro che venivano a prendermi. Poi, ai tempi delle medie, ho cominciato a viaggiarci da solo e durante quel tragitto, tra boschi fitti e ponti elevatissimi, ero certo di stare attraversando regioni, Stati e forse anche continenti.

Una voce registrata avvisa che il treno è in partenza e che a bordo è obbligatoria la mascherina FFP2. La stoffa dei sedili è blu elettrico, intermezzata da quadratini grigi dello stesso colore dei poggiatesta. Tutto è silenzioso e pulito, e l’aria condizionata lavora ben oltre le necessità climatiche del paesino di montagna da cui stiamo partendo, Soveria Mannelli, che è poi quello in cui sono nato. Ci muoviamo in perfetto orario e per un attimo sento spirare la brezza del Canton Ticino. “Ferrovie della Calabria vi dà il benvenuto a bordo. Il treno è diretto a Catanzaro Città”. A questo annuncio segue l’elenco delle fermate che spazia tra nomi esotici come Decollatura, Serrastretta, Cicala, Cavorà, alcuni santi, San Bernardo, Santa Margherita, San Pietro Apostolo, e due irrinunciabili Madonne, di Porto e del Pozzo. Poi nulla, silenzio di tomba. Solo di tanto in tanto qualche cigolio dei freni. Lo stridore sulle rotaie che impediva a me e ai miei cugini di parlare ormai è un retaggio del passato, così come i sedili rivestiti di pelle verde, con gli squarci che lasciavano intravedere la spugna gialla dell’imbottitura. Consegnate alla storia pure le temperature roventi che il vagone raggiungeva quando la ferraglia a strisce rosse e panna in cui era avvolto veniva investita dai raggi del sole. La littorina era bollente d’estate e ghiacciata d’inverno, ma quest’ultimo semmai era un problema delle persone che dai paesi dell’entroterra andavano a studiare o a lavorare in città.

I finestrini proiettano campagne assolate e strade sterrate, regalando il film di una giornata agostana alle pendici della Sila. Uomini assiepati intorno a un thermos di caffè, si concedono una pausa dalla raccolta delle patate. I passaggi a livello di legno suonano a festa quando gli andiamo incontro e le fronde rigogliose degli alberi sembrano sbracciarsi in un saluto. Dopo nemmeno mezz’ora di viaggio il treno arresta la sua corsa, in pendenza nel bel mezzo di una curva. Restiamo fermi per una decina di minuti, ma non sembra interessare a nessuno. Anche perché, a parte due ragazzi saliti con me e due signore salite a Decollatura, nessuno riempie quei modernissimi sedili intonsi. “Ciao e benvenuto” dice, porgendomi la mano, un uomo alto e grosso col viso coperto dalla mascherina e gli occhiali da sole. Si siede comodo sul sedile di fianco al mio, nella direzione opposta del treno, come se fosse nel salotto di casa sua. “Non dirmi che siamo stati fermi ad aspettare che salissi tu” gli dico ridendo. “Beh, i privilegi del mestiere” mi fa eco lui. Sono già pronto a inveire contro il clientelismo che attanaglia questa terra, ma lui si affretta a spiegarmi che nella stazione dove è salito, c’è un solo binario e quindi bisogna aspettare che passi il treno che viene dall’altro lato per evitare il peggio.

Angelo Maggio lavora alle Ferrovie della Calabria dal 1988 ed è anche per questo che ci si sente a casa. “Ci lavorava mio padre e prima di lui mio nonno che ha iniziato come guardia notturna e poi è diventato fuochista, dopo aver lasciato l’Arma dei Carabinieri per non dover salutare i gerarchi fascisti. Ho un legame fortissimo con questa ferrovia, sicuramente sono di parte”. Angelo è addetto alla manutenzione del binario e per questo motivo due volte all’anno si fa tutta la tratta a piedi ispezionando ogni centimetro dei 50 km che compongono quella strada ferrata. “Negli ultimi lavori di ammodernamento, da un certo punto in poi, abbiamo sostituito i vecchi binari con una lunga rotaia saldata: in pratica non esistono più le giunzioni tra le rotaie e questo dà al viaggio un confort totale” dice con un sorriso fiero.

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