Una città dove morire

I colori del televisore illuminano il viso di Fabrizio, di anni 15, che si sta innamorando anche se ancora non lo sa. È una notte di fine estate e dall’altra parte dello schermo, sul palco dell’Arena di Verona, c’è una cantante dai capelli cotonati. Sta intonando un brano in inglese intitolato Lancelot, curandosi più di sventolare il suo ampio mantello che di andare al passo col playback. “Riesco a vederti qui in piedi da solo” – dice Valerie Dore  – “le ombre ora attraversano i tuoi occhi” e Fabrizio è certo che stia parlando con lui.

Qualche settimana dopo quella finale del Festivalbar 1986, sua madre fa imbarcare lui e tutta la famiglia su una nave diretta a Quartu Sant’Elena, e le ombre evocate dalla cantante sembrano farsi profezia. Da quando si sono trasferiti a Torino, infatti, la madre di Fabrizio ha sempre ripetuto di voler tornare a morire in Sardegna ed evidentemente sente la fine avvicinarsi. Fabrizio, insieme alle sorelle più grandi, si arrende al volere materno e sul ponte dell’imbarcazione guarda dissolversi la schiuma insieme al volto di Valerie Dore e alla speranza, un giorno, di poterla incontrare.

“Il problema è che ho rischiato di morirci io in Sardegna, soprattutto quando le mie sorelle sono riuscite a scappare per tornare dai loro fidanzati a Torino”. L’uomo che mi racconta queste cose ha 51 anni anche se ne dimostra molti di più. È piccolo e porta con disinvoltura una gobba che non fa che accentuare la sua statura. Una folta barba grigia come quella di Marx gli copre metà del viso; indossa jeans larghi, una canotta verde militare e un cappellino blu con visiera. Il suo nome è Fabrizio. “Può essere un sogno la Sardegna quando hai 15 anni?” mi domanda retoricamente. “Il mio sogno era la Milano degli anni Ottanta, quella dei paninari e degli yuppies, hai presente gli yuppies? Hanno fatto pure il film con Ezio Greggio, Yuppies 1, Yuppies 2. L’invidiavo perché si vestivano alla moda e cuccavano le sfitinzie!”

Fabrizio parla degli anni Ottanta come di un’età dell’oro, ancora più lucente, forse, perché osservata dall’altra parte del mare, da un’isola dove ogni cosa che accade nel continente appare esotica, lontana, invidiabile. A me quel periodo ha sempre suscitato invece un certo disgusto, portandomi a confinarlo, nella mia mente, solo al decennio che mi ha dato i natali. “Gli anni della deportazione sono stati sette, pesantissimi. Poi è avvenuto il miracolo: mio cognato mi ha trovato un lavoro in una fabbrica in provincia di Torino, così me ne sono potuto andare dalla Sardegna”.

Siamo seduti su due panche di legno, uno di fronte all’altro, e appoggiamo le braccia su un tavolo di quelli tipici delle sagre di paese. Intorno a noi uomini e donne arrivano alla spicciolata e prendono posto timidamente sulle centinaia di panche di cui la piazza è disseminata. “Producevamo pezzi che poi vendevamo alla Fiat” m’informa. “Il lavoro era quello che era ma almeno potevo fare avanti e dietro da Milano nei giorni liberi. Pure se era passato Antonio Di Pietro e aveva fatto piazza pulita di tutto, anche dei paninari, Milano era sempre Milano, la città numero, la locomotiva d’Italia, come dicono tutte le guide turistiche”.

Così dicendo si sporge oltre lo spigolo del tavolo e mi indica con la mano quattro grandi borse della spesa, di quelle riutilizzabili, che hanno l’aria di essere molto pesanti e che fino a quel momento non avevo notato. “Qui dentro ho tutti i libri su Milano, praticamente non c’è una guida della città che non ho letto”. Non me ne mostra nemmeno una ma intravedo la costa di un grosso volume far capolino da uno dei sacchetti. “Me li devo portare appresso sennò me li rubano, non ci si può fidare di nessuno. Praticamente porto in giro la città di Milano”, conclude ridacchiando.

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