La musica è finita

Due noccioline ci stanno sempre bene”, dice una signora dai capelli biondo platino e il viso di chi vuole restare giovane per sempre. Poggia sul tavolino un barattolo di plastica con dentro arachidi salate e torna verso il bancone trascinando i tacchi. Lì un uomo con un cappello da alpino, ornato da una spilla, sta infilando gli spicchi di limone nelle nostre birre. Si muove come guidato da una melodia che sente solo lui, nel locale regna il silenzio. Lei prende le bottiglie, una per mano, e si dirige verso di noi. “Grazie”, dico. “Di niente stellina”, risponde.

Il Naviglio Grande scorre verso il centro di Milano, nella zona dove si susseguono i frequentatissimi locali di aperitivi a due soldi. Ma al numero 113 di questo lato del naviglio, in milanese ripa, pur essendo a due passi dal trambusto, l’orologio sembra battere tempi più lenti, fino quasi a interrompere il suo ticchettio. Qui da trent’anni circa c’è un locale che merita una visita solo per il nome, Johann Sebastian Bar. Fuori un’insegna luminosa a forma di pianola recita Karaoke, ma dentro s’intravedono solo tavolini vuoti che si perdono nella penombra.

“Siete capitati nel periodo sbagliato”, dice l’uomo dietro al bancone. Si toglie il cappello con la spilla e ne indossa uno con dei fiori stampati, lasciando per un attimo scoperto un lungo codino. Poi prende una sedia e si siede accanto a noi. Vieni Angelique, dice alla donna bionda che vaga per la sala deserta mettendo a posto delle sedie già in ordine. “Certo, certo”, risponde lei. “Per colpa di quella che abita sopra”, dice l’uomo indicando con l’indice il soffitto, “il Comune non ci permette più di mettere musica. Abbiamo dovuto proprio smantellare l’impianto, le casse e tutto il resto, e infatti, come vedi, non viene più nessuno”. “Dopo tutto questo tempo”, sospira Angelique, sbattendo le ciglia finte. “Aspettiamo la risposta del Tar, se va bene fra quindici giorni potremo ricominciare a esibirci”, dice fiducioso l’uomo che ha un forte accento fiorentino ma che si chiama Jean Paul.

Si sono conosciuti molti anni fa in Lussemburgo, quando erano entrambi dei ragazzini. Lui, fresco di Conservatorio, era in tournée con la sua orchestra – I Milord – in cui suonava il flauto; lei era una giovane cantautrice arrivata lì grazie a un concorso che le aveva permesso di incidere il suo primo 45 giri. “Tempo dopo” continua Jean Paul “l’impresario dell’orchestra ci procura un contratto per tutta l’estate al Villaggio Coppola di Castel Volturno, a patto che facessimo entrare una donna con noi”. “Eh, eh” ride Angelique. “L’impresario un giorno entra in studio e dice di aver trovato quella giusta, apre la porta e chi fa entrare?”. “Angelique!” conferma lei esplodendo in una risata. E da quel momento Jean Paul e Angelique non sono mai stati un giorno l’uno lontano dall’altra.

Lui lascia l’orchestra e insieme formano un duo. Per i primi tempi il loro nome è stato Elio & Angelique, perché lui in verità si chiama Elio Giampaolo. “Quando però andammo in tournée in Francia ai tempi del primo album, il nostro produttore disse che per fare le cose fatte bene dovevo prendere anch’io un nome francese e così sono nati Jean Paul & Angelique”. Quando ritornano con la mente al passato, i due non sono molto precisi. A volte parlano di quaranta, a volte di trenta anni fa. I loro pezzi cominciano a piacere ma la loro specialità è il piano bar, ai tempi molto richiesto anche negli ambienti chic. “Siamo stati chiamati nei più bei locali d’Italia e del mondo” dice Jean Paul. “Sì, del mondo! In Giappone per esempio” gli fa eco Angelique, lo sguardo sognante e il rossetto ben oltre il perimetro delle labbra. “Ma poi anche in tutti quegli hotel di lusso che facevano piano bar” continua lui “dal Principe di Savoia al Palace, per restare su Milano, ma anche la Bussola o la Capannina di Franceschi a Forte dei Marmi. Fino a quando è arrivato questo miliardario, Robert Muhammad, commerciante di pietre preziose, che ci ha ingaggiato nel suo yatch per tutta l’estate”.

Jean Paul ci tiene a sottolineare che il ricco magnate fosse arabo ma cattolico, di pelle bianca e con solo una moglie e tre figli a carico. “Ci riempiva di soldi per cantare solo mezz’ora la sera, mentre lui concludeva affari con sceicchi ed emiri. Da quanto gli eravamo piaciuti, l’anno dopo ci fa venire a prendere da una macchina che ci porta a Malpensa e da lì ci fanno imbarcare sul suo aereo privato diretto a Tokyo”. “Come a Tokyo?” chiedo io. “Sì, aveva un locale anche lì. Avevamo firmato per quindici giorni e siamo rimasti un mese e mezzo”. “A Tokyo?” domanda Angelique “Non me la ricordo questa cosa di Tokyo”. Jean Paul colma immediatamente il silenzio che si crea tra di noi. “Sì a Tokyo, dove tu saresti voluta restare per sempre”. “Ah sì è vero, è vero” dice Angelique. “Fantastici i giapponesi, meravigliosi” rammenta. Ci raccontano di fiori e frutta fresca in camera tutti i giorni dopo i concerti, sia per lei che per lui; di inchini e premure costanti, di un’educazione incredibile.

 

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