Generi di conforto

Stavamo chiacchierando dopo cena, sprofondati nelle poltrone di vimini. Tra le mani tenevo il quarto o il quinto bicchiere di Zibibbo, fatto con uve che passano la loro vita affacciate sul mar Tirreno. Avevo trascorso la giornata su una spiaggia selvaggia e semi deserta di Capo Vaticano e i segni del sole ce li avevo tutti orgogliosamente in faccia.

Si parlava, dicevo, e un giornalista che faceva parte dell’organizzazione del festival di cui ero ospite mi fa: “Stanotte non riuscivo a chiudere occhio, dopo aver visto quello che è successo a Marrakech”. E io annuivo, non sapendo bene cosa dire, visto che il rap non mi ha mai particolarmente interessato. Forse sarà tornato con Elodie, ho pensato, e continuavo a muovere la testa con aria seria, tanto di vino ne avevamo in corpo abbastanza entrambi.

Quando l’indomani ho scoperto quello era successo in Marocco mi sono sentito scemo, ma è durato un attimo. Subito dopo sono stato pervaso da un’incredibile sensazione di pace. Ho ripensato al mare cristallino in cui avevo nuotato quel giorno e il giorno prima, e alle meduse che riuscivo a scansare perché le vedevo arrivare, maestose e placide (non è completamente vero, una mi ha beccato, ma mi rovinava l’effetto retorico); ho ripensato al glicine che ho piantato, verso maggio, accanto a un traliccio del pergolato a cui con poche speranze mi auguravo si avvinghiasse e che, invece, la luce dell’estate ha fatto crescere vigoroso e altissimo; ho ripensato alla brezza respirata in riva al lago Arvo, in Sila, steso su un prato a non pensare a niente. E poi mi è venuta in mente mia nonna quella sera di luglio quando mi ha chiesto se potevo potarle le rose anche se stava facendo buio, che lei non ce la fa più a stare in piedi troppo a lungo; e poi alle stelle che si vedono a migliaia dal balcone della stanza dove dormivo da ragazzino e dove sono tornato a dormire.

Per continuare a leggere iscriviti a Minutaglie, la mia newsletter che non va di fretta, di cui questa storia fa parte.