Qualche tempo fa sono stato trascinato a un aperitivo fra colleghi, alla fine di una qualunque giornata lavorativa. Come accade spesso durante questi riti sociali, si parlava del più e del meno e a me parlare del più e del meno stanca subito. Dopo aver sfoderato le mie limitate risorse da intrattenitore, sorseggiavo la mia seconda birra fissando la fauna degli impiegati milanesi in libera uscita. Sento che la discussione si è spostata sull’oroscopo, argomento che mi entusiasma pressappoco quanto parlare del più e del meno. Tu di che segno sei?, mi chiede un’amica di una collega a bruciapelo. Sagittario, rispondo io. Certo, ci avrei scommesso, fa lei con tono sicuro. Sinceramente curioso, provo a capire come nel 2019 si possa considerare l’oroscopo una cosa seria. Sento sproloquiare di stelle, influenze, ascendenti, cicli lunari, ma nessuno riesce a convincermi particolarmente, anche perché mi sono sempre professato un fiero razionalista.

Ero all’oscuro che in quegli stessi giorni sul New Yorker era uscito un articolo che afferma, in soldoni, che dagli anni Settanta non si era mai vista una così enorme accettazione culturale dell’astrologia come oggi. Pare che ci sia un numero elevatissimo di persone che conosce il proprio segno, il tema natale, l’ascendente e tutto quelle cose lì. Ma ciò che mi ha lasciato più perplesso è che molte di queste persone siano millennial. Ma non millennial analfabeti, complottisti e negazionisti, ma gente istruita e laureata che non vede alcuna contraddizione nel credere sia alla scienza che all’oroscopo. Va beh, si dirà, in tempi di crisi economica, d’incertezza politica, di calo di consenso attorno alle religioni, tutti sono in cerca di qualcosa a cui aggrapparsi, in cui credere (tanto per dirne una, la prima rubrica di astrologia fu commissionata nell’agosto 1930, a seguito del crollo della borsa, per il tabloid britannico Sunday Express e il suo successo fu enorme). Gli esperti dicono che questo però è un luogo comune. Il successo dell’astrologia è da rintracciarsi più nel fatto che offre distacco più che certezze, ovvero la possibilità di accettare con più benevolenza le cose che non ci piacciono di noi, o le cose spiacevoli che ci accadono, perché visti come ingranaggi di cicli che si ripetono ma che prima o poi passano. Non sono triste, ho Saturno contro, Non ho problemi col mio partner, ho Venere in sta cippa. Fasi prevedibili e quindi rassicuranti, molto meglio che vagare nell’abisso dell’incertezza riguardo al futuro e a noi stessi. In fondo, lo sappiamo, a noi esseri umani è sempre piaciuto raccontarci storie.

Il giorno dopo quell’aperitivo, durante la pausa pranzo, il discorso è caduto di nuovo sui segni zodiacali. Mentre stavo seriamente accarezzando l’idea di farmi andare di traverso un boccone di cibo, è spuntato il nome di Rob Brezsny. Si è ironizzato sul fatto che le sue previsioni siano incomprensibili a chi non abbia almeno 7 o 8 lauree in discipline diverse e poi qualcuno ha pensato bene di leggere ad alta voce l’oroscopo dei presenti. Tutti i miei colleghi sono rimasti a bocca aperta dopo la lettura del mio segno, convenendo che fosse magnifico, strepitoso. E non avevano idea di quello che mi frullava nella mente proprio in quei giorni.

È sempre una brutta cosa perdersi? Vagare nell’ignoto senza mappa? Ti propongo una versione positiva del perdersi. Dovrai essere disposto a rinunciare alle tue certezze, ai dogmi rassicuranti del tuo mondo, ma dovrai farlo con gioia e curiosità. Non ti chiedo di diventare un eroe che non ha mai paura e non è mai confuso. Ti chiedo solo di avere fiducia nel fatto che la vita ti regalerà benedizioni che non avresti avuto se non ti fossi perso. (Rob Brezsny, Internazionale, 24-30 ottobre 2019)

Qualche tempo prima infatti, dopo mesi di sfiancanti rimuginii, ero andato dal mio capo a chiedere una riduzione del mio orario di lavoro (con la conseguente e ponderata rinuncia al compenso delle ore non lavorate). Con mia grande sorpresa lui ha accettato immediatamente, comprendendo la mia necessità di prendermi del tempo da dedicare maggiormente alle mie passioni. Quando sono tornato alla scrivania ho sospirato a lungo, ho guardato il monitor in stand-by e ho cominciato a pensare di aver fatto un’immensa cazzata. Ho passato il weekend successivo serrato in casa, avvolto in un plaid e in un enorme stato di malessere. Ho preso a fare conti, simulazioni, ore in più, ore in meno, quanti soldi perdo, quanti ne guadagno, e poi ho dato il via a un alternarsi lunghissimo di catastrofismi – omioddio che cosa ho fatto, la mia vita è finita – di entusiasmi estremi – scriverò tantissimo, rimetterò mano al mio romanzo, vedrò più gente, leggerò libri, andrò al cinema e alle mostre di pomeriggio – e poi di nuovo di catastrofismi – sono solo uno sfaticato, non posso stare a casa per leggere i libri, omioddio che cosa ho fatto, la mia vita è finita.

Solo qualche settimana dopo, a part-time iniziato, ho scoperto che un numero crescente di persone nel mondo sta facendo questa cosa che ha anche un nome. Adesso posso chiamare fiero mio padre è dirgli Pater, ho scelto il downshifting, e lui risponderà “Cosa?“, e io gli spiegherò: Ho optato per la semplicità volontaria, una libera e consapevole autoriduzione del salario finalizzata al recupero del tempo per dedicarmi alle relazioni, allo studio e agli hobby. Al che lui mi risponderà allo stesso modo in cui mi ha risposto quando gli ho detto che stavo pensando a un part-time: Tu sei tutto scemo. La sua reazione e le mie innumerevoli perplessità sono il frutto di una narrazione di cui siamo tutti intrisi, come dice bene Davide Mazzocco in Cronofagia: per esistere dobbiamo lavorare, e dobbiamo lavorare tanto. Per poi spendere tanto durante il tempo in cui non lavoriamo. Il capitalismo ha a tal punto plasmato le nostre menti da indurci organizzare nel dettaglio anche le vacanze, che in realtà, come suggerisce l’etimo latino, si chiamano così perché dovrebbero essere vacanti di occupazioni. Mazzocco, citando Edgar Morin, filosofo e sociologo francese, riflette sul passaggio epocale da un tempo strutturato sulla base dei grandi eventi collettivi, a uno, il nostro, in cui il tempo delle feste è stato sbriciolato nel corso dell’anno e diluito nei weekend e nelle vacanze che ossessivamente cerchiamo di riempire. Le frasi che oggi ci piace pronunciare di più sono “non ho tempo”, “sono oberato”, “proviamo a incastrare”, “aggiorniamoci più tardi”. A questo proposito ho trovato illuminante un passaggio del libro, una citazione di Etienne Klein – fisico e filosofo francese  – che vale la pena riproporre per intero:

Oggi l’individuo è sempre più rivolto verso se stesso, verso le proprie possibilità moltiplicate dalle tecnologie e, dunque, ha voglia di saturare il proprio impiego del tempo per non lasciare spazio al vuoto che lo colpevolizzerebbe. Quindi non dovremmo lamentarci perché penso che tutto ciò sia il risultato di un desiderio che non è necessariamente espresso, ma che ci spinge a saturare il nostro tempo perché l’occupazione ci dona un’ontologia, un peso esistenziale. Quando siete sommersi dal lavoro esistete! C’è una sorte di piacere nel fatto di poter dire di non avere tempo, in più è una buona scusa che permette di non ascoltare gli altri, di non dover rispondere alle loro domande e di non occuparci di loro. (Cronofagia, D Editore 2019, pp 96)

Ecco, io non ho voglia di passare la mia vita a dire “non ho tempo”. Non ho intenzione di diventare un asceta contemplatore (non fa per me), ma non ho nemmeno voglia di considerare un crimine leggere un libro o andare al cinema in un pomeriggio infrasettimanale, o tornare a casa a piedi invece che coi mezzi. Di contro ho voglia di ascoltare di più me stesso e gli altri, di svegliarmi la mattina ed essere sereno anche se fuori piove. Così, consapevole di essere un privilegiato, ho preso per buono l’invito del signor Brezsny che, lungi dal convincermi che la luna e le stelle avessero previsto questa mia decisione, mi ha dato quella spinta finale che mi mancava. Poi per sicurezza sono andato a leggermi anche le previsioni delle settimane successive e, grazie al cielo, Tutto bellissimo, Grandi progetti, Hai fatto la cosa migliore della tua vita (tantissimo entusiasmo insomma).

Dopo il primo mese di part-time verticale mi sembra di avere vissuto un tempo dilatato, in cui ho fatto molte cose e molte le ho pensate. Tra gli obiettivi che mi sono messo in testa c’è anche una serie di interviste a persone comuni ma con storie che vale la pena raccogliere e raccontare. Insieme a un fotografo sto collezionando questi racconti per poi farli confluire in una Newsletter lenta, che si prenda il tempo necessario per far spazio a fatti minuti di persone comuni. Perché in fondo lo sappiamo, a noi esseri umani è sempre piaciuto raccontarci storie.

2 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

*