Sulla mediocrazia

Sembrerebbe essere stato, nel Seicento, lo scrittore e moralista francese Jean de La Bruyère a fare un primo ritratto dei mediocri, ovvero di quelle persone che riescono a farsi strada, senza particolari virtù, grazie al ricorso al pettegolezzo e all’intrallazzo. Nell’Ottocento, però, i mediocri chiedono di più e pretendono di avere un posto nelle stanze della politica, della cultura e della scienza: è in quel momento che la parola mediocrazia entra in scena, la “cancrena della società” per dirla con Gustave Flaubert, attraverso il poeta Louis-Hyacinthe Bouilhet.

Questi spunti sono gentilmente offerti dal filosofo canadese Alain Deneault che nel 2015 ha scritto La Mediocrazia, testo da cui trae le mosse il Punto di vista di Andrea Rossi sul numero di novembre di Style.

L’ARRIVO DEI MEDIOCRI

Oggi ne vediamo ovunque, ne siamo circondati. Dalla politica agli influencer, dagli scrittori agli intellettuali: probabilmente viviamo nella pienezza dell’epoca mediocratica. Deneault rintraccia questa deriva nell’avvicendarsi di alcune tappe storico-sociali ed economiche, a partire dalla rivoluzione industriale, quel momento in cui i mestieri hanno ceduto il posto alle funzioni, le pratiche a tecniche precise, la competenza alla mera esecuzione. Capitalismo e liberismo hanno fatto il resto, rendendo i lavoratori indifferenti al contenuto del proprio lavoro e trasformandoli in semplici esecutori.

A un certo punto però, pure i mediocri si sono svegliati e si sono chiesti: com’è possibile che pure se in alto ci stanno i competenti, i migliori, noi qui stiamo sprofondando sempre più dalla classe media a quella povera? Perché i nostri stipendi non aumentano ma il costo della vita sì? E la gestione ballerina della pandemia da parte degli esperti non ha fatto altro che consolidare questo sentimento. “A fronte di una classe competente che appare divisa, e talvolta meno competente nella pratica di quanto dovrebbe esserlo in teoria, si ergono i suoi nemici autoproclamati: chiamiamoli populisti, poiché oppongono alla retorica elitista della minoranza istruita quella del popolo, e ai radical chic un radical choc” – dice Raffaele Alberto Ventura nel suo ultimo saggio, Radical choc – Ascesa e caduta dei competenti (Einaudi).

ESSERE PRESI SUL SERIO

“Eppure, di fronte alle sfide del futuro (questione ambientale, ridistribuzione delle ricchezze) serviranno idee e saperi enciclopedici, servirà riprendere la Bastiglia” dice Rossi riprendendo un libro del 1994 di Edward Said, scrittore e professore di letteratura.

Dal ’94 a oggi ne sono successe di cose. Stuoli di millennials e di genZ hanno studiato, si sono formati, hanno viaggiato molto più dei propri genitori e dei propri nonni. Eppure il loro sapere non è spendibile, le loro proposte derise o non ascoltate, le loro preoccupazioni non prese in esame. Il patto generazionale ed educativo del modello occidentale si è rotto, dice in sostanza Ventura che è anche analista per il Groupe d’études géopolitiques: ai giovani è stato promessa un’occupazione adatta alle proprie aspirazioni in cambio di anni di studio e formazione, ma questo non si è verificato perché erano stati fatti male i conti. Così orde di ventenni e trentenni sono destinati al declassamento e al costante sentimento di inadeguatezza: è questa la fotografia della Classe disagiata, di cui Ventura è membro e cantore (e sulla cui teoria ha scritto il suo primo illuminante saggio), quella generazione che continua a indebitarsi per ostentare uno status e una ricchezza che non ha mai avuto, perché educata a far parte di una borghesia da cui rischia ogni giorno l’espulsione.

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