È curioso come il centenario della nascita di Gianni Rodari, nato a Omegna (Vb) il 23 ottobre del 1920, coincida con l’anno in cui la scuola italiana ha mostrato tutta la sua fragilità e impreparazione. Attraverso la didattica a distanza molte famiglie meno abbienti, con più figli a carico o prive di accesso a internet, sono state lasciate indietro.
E promuovere tutti ha il sapore di un mea culpa: anche Rodari era dell’idea di eliminare la bocciatura, a patto però di concepire una scuola viva, aperta dalle nove di mattina alle cinque di pomeriggio, dove alle lezioni si alternassero gioco e ricreazione, dove i più bravi aiutassero gli altri a fare i compiti e dove i libri fossero il cibo di tutti, specie di chi non ne possiede.
DAL LAGO D’ORTA AL GIORNALISMO
Le sue prime poesie Rodari le scrive in terza elementare, su un quadernetto di carta assorbente. E dire che era nato in una casa senza libri, bagnata dalle acque scure e profonde del lago d’Orta. Suo padre è un fornaio, sua madre fa la «serva in casa dei signori». Nei pomeriggi liberi il piccolo Gianni recita per i suoi amici, la sera sfoglia il Corriere dei Piccoli alla luce di un lampione. Trascorre i pomeriggi dei suoi 16 anni nei boschi a leggere Immanuel Kant, Fëdor Dostoevskij ed Eugenio Montale, per arrivare a Lenin, Stalin e Trockij che gli indicheranno la strada da seguire.
Di essere in grado di raccontare favole lo capisce a 18 anni, quando per necessità diventa maestro elementare e intrattiene i suoi alunni con storie strampalate, spesso facendosi aiutare dai bambini stessi. Comincia così a comprendere il loro modo di pensare e i loro bisogni, ma soprattutto resta abbagliato dalla loro fantasia, convincendosi che una scuola impostata sulla disciplina, sull’obbedienza e sui metodi autoritari rischia di soffocarla: che cosa se ne fa una società di un ragazzino zitto e ubbidiente, si domanda. Servono ragazzi svegli, collaborativi, fantasiosi. Poi arriva la guerra e Rodari si arruola nelle file della Resistenza e, dopo il 25 aprile, in quelle del Pci.
Nel 1947 viene assunto a l’Unità di Milano, dove prende in affitto una stanzetta. Indossato l’unico completo che possiede, si reca in redazione col suo viso da ragazzino e il ciuffo ribelle. In poco tempo si rivela un acquisto prezioso, per la freschezza della sua penna ma anche per l’umorismo innato. Ai salotti buoni preferisce i contadini, gli operai, la politica, che racconta con uno sguardo limpido e malinconico, come il lago che si è lasciato alle spalle. Un giorno scrive una filastrocca per una bambina che quasi per caso viene pubblicata su l’Unità; una lettrice ne chiede una per il figlioletto malato, Rodari acconsente e da quel momento non riesce più a fermarsi.
Articolo uscito nel numero di settembre di Style Magazine – Corriere della Sera. Continua a leggere sul sito.