LGBTQIA+, troppi i termini stonati

Se da una parte la comunità LGBTQIA+ si premura di utilizzare nuove parole e nuove sigle per descriversi e in cui identificarsi, una certa parte politica sceglie deliberatamente di storpiare quelle parole e quella sigle per distorcene il significato.

Da una parte c’è chi crede come Ludwig Wittgenstein che “i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo“, dall’altra chi sa bene come sminuire lotte e rivendicazioni attraverso uno slittamento delle parole verso altre sfere semantiche e valoriali.

 

«La propaganda è sempre più o meno scollata dalla realtà” dice Giuseppe Antonelli che insegna Linguistica italiana all’Università degli Studi di Cassino e ha approfondito questi temi nel libro Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica (Laterza) “crea, attraverso il linguaggio, una verità alternativa. Se parlo di “crociera” a proposito di una nave che trasporta gente disperata, ho rovesciato la realtà con un solo termine. Se per definire un compromesso di governo uso “inciucio” quando a farlo sono gli altri, “contratto” quando sono io, ho creato una polarizzazione positivo/negativo giocando solo sulle parole”. 

L’utero in affitto suona più minaccioso della gestazione per altri, la teoria gender molto più immediata dei gender studies: così facendo, spogliando di significato le parole e le espressioni, ci si prende gioco di persone, storie, legami affettivi. E se, per dirla con John Searle, «non è possibile pensare con chiarezza se non si è capaci di parlare e scrivere con chiarezza», coloro che utilizzano queste espressioni non hanno ben chiaro nemmeno l’argomento che pretenderebbero di difendere. Non è un caso si tratti di quelle stesse forze politiche che si spellano le mani quando l’aula respinge un DDL che ha il solo obiettivo di contrastare i crimini d’odio contro le persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+, alle persone con disabilità e quelli indirizzati contro le donne.

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