Sarà la Tornanza a far rivivere i paesi spopolati?

Nel 2011 l’antropologo e professore universitario Vito Teti utilizzava per la prima volta il termine “restanza” all’interno di un suo saggio in cui cercava di spiegare come il restare a vivere in alcuni luoghi complessi e spopolati, molto spesso, si configuri come un’avventura molto più ambiziosa e difficile del viaggiare stesso. Anzi, dice l’antropologo calabrese, il viaggiare non avrebbe senso se non ci fosse qualcuno che resta ad aspettare il ritorno.

In questi 13 anni il concetto di restanza ha trovato fortuna tra studiosi, giornalisti, registi e scrittori, specie dopo la pubblicazione dell’omonimo libro per Einaudi che appare anche in una scena dell’ultimo film di Antonio Albanese. E come spesso accade quando un’espressione diventa pop, chiunque può maneggiarla a suo piacimento.

Cos’è la Tornanza

Deve certamente molto alla restanza di Teti un termine che sta girando sui media negli ultimi mesi, la Tornanza, che si colloca – se non dalla parte opposta – in posizione complementare alla restanza: un progetto articolato fatto di un libro, di un podcast e di un festival itinerante (prossimo appuntamento il 20 settembre a Matera) che vuol dare vita a un movimento culturale capace di ripopolare i paesi italiani, grazie alle capacità e alle idee di chi ritorna a viverci portando con sè il bagaglio di conoscenze appreso negli anni vissuti lontano da casa.

La rinascita dei territori – nella visione degli ideatori Antonio Prota e Flavio Albano – deve partire dall’innesto tra chi torna (ribattezzato tornante, in questa fiera di participi presenti) e chi è restato. A fare da collante tra i due poli ci sono il viaggio, come innesco del cambiamento, e l’innovazione, come strumento a servizio del capitale umano e del territorio. I termini che piacciono ai giornali ci sono tutti: expat, cervelli in fuga, far rivivere i borghi (già Teti nel 2011 metteva in guardia dall’utilizzare questo termine come sinonimo di paese, che rischia di nascondere i problemi e le brutture di certi luoghi sotto il tappeto estetizzante della cartolina, e di recente anche un altro libro dal titolo inequivocabile), ma per capirci qualcosa in più abbiamo posto alcune domanda ai fondatori della Tornanza.

Flavio Albano e Antonio Prota, ideatori della Tornanza. Credits Ufficio Stampa

Intervista a Flavio Albano e Antonio Prota, ideatori della Tornanza

Le vostre storie personali immaginiamo siano state interessate da un ritorno: è questo il punto di partenza del progetto?
Sì, l’analisi parte proprio dalle nostre esperienze di vita e dai periodi vissuti all’estero, dalle difficoltà e dai successi raccolti. In particolare, Antonio (Prota) è rientrato dopo diversi anni dagli USA e Flavio (Albano) ha trascorso periodi di studio e lavoro in Polonia, USA, Emirati Arabi. Entrambi sono stati percorsi manageriali e il rientro nasce dalla volontà di impattare sul proprio territorio costruendo un cambiamento. Quando si sta fuori per molto tempo si riesce a guardare con un’ottica completamente differente le proprie origini, nascono opportunità che prima non avevano luce. Il progetto Tornanza è figlio di questa visione e della necessità di dar voce e visibilità a chi silenziosamente avvia un percorso del genere. Intravediamo in questo modello di collaborazione tra chi resta e chi torna un valore economico e sociale in grado di invertire la tendenza allo spopolamento.

Qual è stata l’accoglienza che avete ricevuto dalle comunità d’origine al vostro ritorno?
Qui bisogna distinguere tra la comunità affettiva e quella lavorativa. La prima è stata entusiasta, con accoglienza affettuosa superiore a ogni aspettativa. Ricordo (dice Antonio) che mia madre al mio ritorno definitivo dagli USA è arrivata in aeroporto con un tegame di patate, riso e cozze, per lei il cibo è la più grande manifestazione di affetto. Con la comunità lavorativa, invece, è stato più complesso, c’è stata più diffidenza anche perché chi resta sente di conoscere meglio il territorio e le sue dinamiche. Il tema del rapporto tra tornanti e restanti è molto delicato, ma fondamentale per creare crescita territoriale. È la collaborazione e il dialogo tra questi due  mondi apparentemente separati che porta alla crescita. Chi ha custodito, conosce certamente il territorio, chi ritorna (o anche chi arriva) ha una visione di insieme, la conoscenza per rileggere, riutilizzare, riprogrammare in ottica di valorizzazione.

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